Di quale femminismo si parla? #womenagainstfeminism

Recentemente ho visitato uno dei blog-campagna più popolari degli ultimi mesi: Women Against Feminism. Il sito, online da luglio dell’anno scorso, raccoglie in prima pagina gli autoscatti di donne che esprimono, attraverso frasi schematiche e dirette, il loro dissenso nei confronti del femminismo. Sicuramente non aggiungerò niente di nuovo a quanto già scritto e detto, eppure ho sentito il bisogno di fare alcune considerazioni.

Credo non vi siano dubbi sul fatto che il titolo del blog (donne contro il femminismo) non ammetta, nella sua perentoria immediatezza, alcun tipo di riflessione alternativa. Non vi è nessuna intenzione di creare, per esempio, un dibattito − sia pure aspro, ma pur sempre un dibattito − attorno a particolari prese di posizione assunte negli anni dal movimento femminista. Qui sorge il primo (personale) dubbio. Infatti, lungi dal voler tracciare una cronologia esatta ci si accorge, aprendo qualsiasi enciclopedia o libro di Storia, che il femminismo occidentale ha vissuto (almeno) due grandi fasi storico-ideologiche: una che va dalla seconda metà del XIX secolo fino alla metà del secolo scorso, l’altra che inizia nei primi anni Sessanta e giunge sino ai giorni nostri. La domanda ora nasce spontanea: a quale femminismo fanno riferimento le donne di Women Against Feminism? A quello delle suffragette? A quello europeo? Oppure a quello americano del Women’s Lib?
Persino leggendo pochi stralci di una generica enciclopedia si può capire che il femminismo non è una cosa semplice, liquidabile in una parola sola, ma un fenomeno complesso che meriterebbe delle considerazioni quanto meno ponderate, soprattutto se l’obiettivo è quello della critica antagonista.

Spostando l’attenzione sui commenti in prima pagina ci si imbatte in frasi di ogni tipo, talvolta ingenue: «non ho bisogno del femminismo…perché non ho bisogno di qualcosa che demonizzi gli uomini…perché non odio tutti gli uomini…perché il mio migliore amico è un ragazzo»; altre volte di un’illogicità sconcertante: «non ho bisogno del femminismo…perché sono eterosessuale [sic]…perché amo essere una vera donna…perché mi piace il sesso». In ogni caso trattasi di pensieri scritti senza un briciolo di argomentazione che spesso denotano, come sottolinea anche Elisabetta Borzini dalle pagine di MAGult, scarsa consapevolezza (e conoscenza) circa il tema cui si fa riferimento.

Al di là degli effetti di senso che una simile operazione ha prodotto e sta producendo, l’approccio è, nella sua faciloneria, potenzialmente distruttivo perché spiana la strada alle banalità sloganistiche, senza articolare un discorso coeso che faccia emergere particolari criticità in modo sensato e ragionevole.

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