Questa è una versione leggermente modificata di un pezzo che scrissi nel 2014 e non resi pubblico.
Prima di ogni partita, Mario Martiradonna si esercitava, studiando le caratteristiche dell’attaccante che avrebbe marcato. Ne immaginava le movenze, le finte, gli stop, i cambi di direzione. Talvolta questo rito psicologico avveniva perfino una settimana prima dell’incontro. Se, per esempio, il Cagliari era in campo contro la Fiorentina, Martiradonna, mentre strattonava Chiarugi, aveva già il pensiero rivolto a Rivera. Come se prevenire il gesto – mentale ancor prima che tecnico – dell’anticipo, potesse aiutarlo ad affrontare meglio colui che sarebbe stato il suo diretto avversario.
In allenamento – quello vero, con i compagni di squadra – si mise a marcare Gigi Riva. Durante una partitella, sotto lo sguardo incupito di Manlio Scopigno, il terzino barese rifilò un maldestro calcione a Rombo di tuono. Fu il finimondo. Il Filosofo, imbestialito, prese a male parole il povero Martiradonna, minacciando di rispedirlo dove la dirigenza l’aveva prelevato: a Reggio Emilia, sponda Reggiana. L’allenamento seguente il numero 11 rossoblu restituì la gentilezza al difensore, assestandogli una velenosa tacchettata. Scoppiò nuovamente il pandemonio perché quel Cagliari aveva bisogno tanto di un bomber quanto di un anti-bomber.
Lo stile di gioco di Martiradonna, fatto di marcature soffocanti sulle mezze punte avversarie e contrasti aggressivi, era elementare, ma rigoroso. Forse è per questo motivo che Albertosi, di ritorno dalla sfortunata avventura di Mexico ’70, si chiese per mesi: – perché Burgnich sì, Martiradonna no? Il portiere della nazionale e del Cagliari scudettato era infatti convinto che il barese avrebbe marcato Pelé meglio di tutti. – Altro che Burgnich, altro che Rosato e Poletti. Chissà se il numero 2 rossoblu avrebbe giocato d’anticipo anche su Pelé, impedendogli di sovrastarlo in elevazione o sfuggire in velocità. Ad ogni modo, se Valcareggi avesse convocato Martiradonna, questi si sarebbe preparato psicologicamente – come minimo – dal mese prima, simulando mentalmente le svariate modalità con cui avrebbe messo al tappeto ‘O Rei.
Di Martiradonna si diceva che fosse spietato, uno che non toglieva mai la gamba, che avrebbe fatto lo sgambetto a tutti i costi pur di non farsi superare. Come quella volta che inseguì per quaranta metri Paolino Prati, involatosi sulla fascia sinistra palla al piede, e poi lo sbilanciò fino a fargli perdere l’equilibrio. Risultato: Prati dolorante in barella, con una caviglia a pezzi e una prognosi tutta da decidere. Eppure Riva e compagni sapevano che, nonostante la caparbietà profusa in campo, Mario non avrebbe mai dato in escandescenza né con gli avversari né con l’arbitro perché aveva imparato a dare i calci non per cattiveria, ma per necessità.
Quando smise di marcare gli attaccanti più pericolosi della serie A, Martiradonna fece di tutto: dall’allenatore delle giovanili al benzinaio. Ma fuori dal campo sembrava non avesse la stessa lucidità nel leggere le azioni e i movimenti altrui. Perse dei soldi al gioco e venne fregato in qualche affaruncolo mal gestito. Rovinava qualsiasi situazione gestisse, ogni mansione gli era stata affidata, qualunque investimento avesse fra le mani con la stessa facilità con cui usurava le tibie di Anastasi e Mazzola. A quasi settant’anni si ritrovò con un’ingiunzione di sfratto sulla testa, costretto a chiedere aiuto alla città di Cagliari, luogo dal quale non si era mai più spostato sin dal suo arrivo avvenuto negli anni ’60. Muore nel 2011, all’età di 73 anni, dopo una breve ed incurabile malattia che l’aveva costretto al ricovero ospedaliero.
L’anno dello scudetto Martiradonna fu l’unico giocatore meridionale a vestire la maglia rossoblu. Il Cagliari, all’epoca composto prevalentemente da calciatori lombardi, veneti e toscani, era un progetto sportivo paradossale: una provinciale del sud che per fare risultato ricorreva alla “manodopera” settentrionale. Un controsenso in un periodo in cui l’espressione “ti spedisco in Sardegna” era un monito, quasi una maledizione, che sottintendeva una punizione severissima.
Se avesse potuto scegliere, Martiradonna avrebbe preferito giocare nella serie A dei grandi sponsor e dei nomi stampati sulle magliette sintetiche. Ma non avrebbe mai dato via il suo scudetto perché, come disse una volta un suo compagno di squadra, «uno scudetto a Cagliari ne vale dieci vinti a Milano o Torino».