The Division Bell e il fantasma di Roger Waters

Dopo sei anni (Animals, 1977; The Wall, 1979; The Final Cut, 1983) in cui i Pink Floyd erano stati la creatura musicale di Roger Waters, David Gilmour si ritrova, suo malgrado, a raccogliere lo scettro del leader. I risultati però sono ben lontani sia dall’originalità che dalla qualità artistica. Non giriamoci attorno. The Division Bell (1994) è un album brutto. Sicuramente il più brutto dell’era post-Waters, almeno fino a quando non uscirà The Endless River, il quale, fra l’altro, non sembra promettere alquanto bene. The Division Bell, pubblicato sette anni dopo A Momentary Lapse of Reason, è un accrocchio sonoro dominato complessivamente dai languori in overplaying delle chitarre e da soluzioni compositivo-strumentali logore. Nick Mason, bolso, svolge il suo compito senza dare minimamente nell’occhio: il suo drumming è scontato e privo di smalto. Richard Wright, nonostante spalleggi Gilmour nella composizione di qualche brano, non fornisce alcuno spunto di stile. Sono lontanissimi i tempi in cui il tastierista macinava tappeti sonori fra gli oscillatori del VCS3, plasmando indelebilmente il suono della band. Ora che Waters non c’è più, Gilmour ne diventa l’inconsapevole controfigura, incapace di prenderne schiettamente le distanze. Quando Gilmour, infatti, prova a fare Gilmour, quando cioè non è intento a pescare a piene mani dallo sbiadito repertorio watersiano, i risultati sono stucchevoli e autoincensanti; persino i due brani meno brutti dell’intero disco, What Do You Want from Me e High Hopes, vengono sporcati, manco a farlo apposta, dagli sbrodolamenti chitarristici gilmouriani.
Un consiglio: investite il vostro tempo ascoltando altro, tergiversate su altri dischi. 

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